Abbiamo sempre vissuto nel castello – Recensione

abbiamo sempre vissuto nel castello

Abbiamo sempre vissuto nel castello: l’inquietudine, la follia e gli orrori della psiche umana descritti da Shirley Jackson.

Pubblicato per la prima volta nel 1962 ma arrivato in Italia solamente nel 1990, Abbiamo sempre vissuto nel castello è uno dei romanzi più noti, nonché ultimo, della scrittrice statunitense Shirley Jackson.

Abbiamo sempre vissuto nel castelloAbbiamo sempre vissuto nel castello

Shirley Jackson

Editore: Adelphi ● Pagine: 182  ● Prezzo: 15,30€

Valutazione: ★★★★☆

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TRAMA
Con toni sommessi e deliziosamente sardonici, la diciottenne Mary Katherine ci racconta della grande casa avita dove vive reclusa, in uno stato di idilliaca felicità, con la bellissima sorella Constance e uno zio invalido. Non ci sarebbe nulla di strano nella loro passione per i minuti riti quotidiani, la buona cucina e il giardinaggio, se non fosse che tutti gli altri membri della famiglia Blackwood sono morti avvelenati sei anni prima, seduti a tavola, proprio lì in sala da pranzo. E quando in tanta armonia irrompe il cugino Charles, si snoda sotto i nostri occhi, con piccoli tocchi stregoneschi, una storia sottilmente perturbante che ha le ingannevoli caratteristiche formali di una commedia.

Recensione

A Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce.

Leggendo la dedica che fa Stephen King ne “L’incendiaria“, capiamo già che tipo di scrittrice fosse Shirley Jackson e, soprattutto, quanto il suo carattere eccentrico ed umorismo dark abbiano contribuito a renderla così iconica.

Perché Shirley Jackson, a differenza di tanti altri scrittori di horror, non ha mai avuto bisogno di osare. Il suo talento consisteva proprio nel rendere inquietanti le situazioni più ordinarie, i protagonisti più improbabili e gli scenari più rassicuranti.

A dimostrazione che il vero male e le vere minacce si nascondono nella vita di ogni giorno, disorientandoci ed invadendo la nostra mente, a poco a poco, con brividi silenziosi, invisibili e costanti.

Una casalinga scrittrice.

Shirley Jackson in una foto dell’epoca.

Sono una scrittrice che, a causa di una serie di sbagli innocenti e di incapacità di giudizio, si trova con una famiglia composta da quattro figli e un marito, una casa di diciotto stanze, nessun aiuto […] Questo significa che ho al massimo un paio di ore al giorno da spendere sulla macchina da scrivere.

Con un burrascoso rapporto con la madre, un matrimonio infelice, quattro figli e una vita da casalinga disperata, Shirley Jackson trovava conforto nella scrittura, ritagliandosi ogni attimo possibile per la creazione delle sue storie e riversando in esse ogni frustrazione.

Nata a San Francisco nel 1916, la giovane Shirley conobbe preso la scrittura, vincendo il suo primo premio letterario all’età di dodici anni, con la poesia The Pine Tree. A diciotto anni, si iscrisse all’Università di Arti liberali dell’Università di Rochester, che però abbandonò due anni dopo per depressione.

Nel 1937 studiò giornalismo e letteratura inglese all’Università di Syracuse, pubblicando articoli sulla rivista The Spectre e laureandosi tre anni dopo. Nello stesso anno sposò il suo collega Stanley Hyman, che divenne in seguito un rispettabile critico letterario.

Un anno dopo pubblicò la sua prima novella, My Life With R. H. Macy, nella rivista The New Republic, ma fu soltanto nel 1948 che conobbe il successo con il racconto La Lotteria (The Lottery) pubblicato sul New Yorker.

Nonostante le numerose opere, la vita di Shirley non fu per nulla facile, infatti i traumi infantili, i continui tradimenti del marito e i vari problemi mentali portarono spesso la scrittrice a fare uso di alcol, tranquillanti ed amfetamine.

Nel 1962, dopo aver scritto Abbiamo sempre vissuto nel castello, ebbe un esaurimento nervoso che la portò a non scrivere nulla fino al giorno della sua morte, nel 1965, per insufficienza cardiaca.

Quando la realtà diventa finzione.

Shirley Jackson insieme ai suoi figli.

La scrittura della Jackson prendeva spunto dal suo quotidiano, per questo non era difficile trovare riferimenti alla condizione della donna nell’America degli anni Cinquanta o alla sua vita personale, come il rapporto conflittuale con la madre – che la definì “un aborto mancato” – e i problemi di ansia e depressione.

Le sue storie, quasi sempre ambientate in grandi e vecchie case, erano il risultato di una passione tramandata dalla sua famiglia composta da architetti e dell’ansia sociale che spesso viveva.

Io amo le case. Amo la loro solida presenza, e in particolare amo le case vecchie, grandi, e stravaganti. 

Per Shirley, infatti, la casa era spesso il luogo a cui i protagonisti erano irrimediabilmente legati, l’anima del romanzo, un organismo vivente da cui non era possibile allontanarsi e che, nonostante tutto, ti proteggeva dal mondo esterno.

Per questo, le protagoniste della Jackson erano spesso donne solitarie, isolate dalla società, incapaci di relazionarsi con il mondo, orfane o con madri assenti, e con disturbi mentali come ansia, depressione e attacchi di panico.

La scrittrice stessa definì i suoi libri un “documentario sull’ansia” e questo non può che apparirci chiaro anche in Abbiamo sempre vissuto nel castello e nella sua protagonista Merricat.

Abbiamo sempre vissuto nel castello: la storia di una follia strisciante e terrificante.

Abbiamo sempre vissuto nel castello
Cover dell’edizione inglese Penguin Classics.

Merricat, disse Constance, tè e biscotti, presto vieni. Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni. Merricat, disse Connie, non è ora di dormire? In eterno, al cimitero, sottoterra giù a marcire.

Come la strana ed inquietante filastrocca che si ripete per tutto il romanzo, Abbiamo sempre vissuto nel castello è una storia conturbante e strisciante capace di insinuarsi nella mente del lettore e non lasciarla fino all’ultima pagina.

Narrato dal punto di vista di Mary Katherine, una ragazza diciottenne che vive in un modo tutto suo fatto di fantasie infantili, questo romanzo racconta una storia apparentemente ordinaria che può essere compresa solo a ritroso. Sin dalla prima pagina, infatti, non è chiaro dove Shirley Jackson voglia condurre la propria storia e ciò genera nel lettore un forte senso di frustrazione, ansia ed angoscia.

La vita ordinaria di Merricat, scandita da una routine apparentemente tranquilla – fatta di sporadiche visite in città e giornate trascorse rinchiusa in casa in compagnia del suo gatto, sua sorella Constance e uno zio disabile -, inizialmente non può che apparire confusa e strana.

Non si comprende, infatti, quale sia il motivo che ha spinto le due giovani ragazze ad isolarsi dal mondo, lo zio a perdere la testa e gli abitanti del paese a schernirli ma, quando la narrazione evolve, tutto si fa pian piano più chiaro, mettendo alla luce orrori che per troppo tempo erano rimasti sepolti.

L’orrore a cui Shirley Jackson ci fa assistere non è di tipo soprannaturale ma dannatamente reale. Leggendo le pagine di questo libro sembra di ritrovarsi in una sorta di commedia macabra ed insensata, in cui ogni frase o comportamento sfiora il limite del surreale e ogni personaggio sembra essere posseduto dalla follia più pura.

Da Hill House ad Abbiamo sempre vissuto nel castello: l’importanza della casa per Shirley Jackson.

Casa Blackwood dal film del 2018

Come in Hill House, anche in questo romanzo la casa assume un ruolo importante per Shirley Jackson. La tenuta Blackwood, completamente isolata dal mondo, è infatti il luogo in cui si svolgono gran parte delle vicende e attorno a cui ruota ogni personaggio.

Connessa agli orrori del passato e agli eventi del presente, la casa non è semplicemente un luogo, ma un organismo che sembra vivere di vita propria, attirando a sé i suoi abitanti e una folla di curiosi da sempre affascinanti dalla sua presenza.

L’immensa tenuta dei Blackwood, esattamente come le persone che la abitano, sembra sospesa nel tempo e completamente fuori dal mondo: niente è stato spostato, ogni stanza è stata lasciata esattamente come quel tragico giorno di molti anni fa, quasi come se il minimo cambiamento possa farla crollare o niente fosse mai accaduto.

Infatti, nel momento in cui la casa deve fare i conti con il mondo esterno – esattamente come la mente delle due protagoniste – si richiude in se stessa nel tentativo di proteggere ciò che le è più caro, rinnegando la realtà e continuando a vivere in quella parvenza di normalità.

La casa, come in Hill House, è l’espressione dell’anima umana.

Si erge maestosa, isolata ed indistruttibile quando le due protagoniste vivono la loro vita da escluse, mentre crolla pezzo dopo pezzo nel momento in cui si scontra con il mondo e gli estranei che vogliono cambiarla.

In conclusione, Abbiamo sempre vissuto nel castello è un romanzo con un ritmo incalzante, uno stile perturbante e una trama capace di generare suspense, angoscia e terrore come solo Shirley Jackson sa fare.

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