A Dawson’s Creekmas Carol – Capitolo 2 [Fanfiction]

Capitolo 2

Il panorama cambiò e Dawson non scorse più la collinetta che ormai aveva imparato ad amare ed odiare, e nemmeno le luci della grande Hollywood che avevano illuminato ogni notte della sua vita negli ultimi anni. Di fronte ai suoi occhi si stagliava, invece, una grande distesa blu notte che si confondeva con il cielo stellato della sera. Era il fiume della sua infanzia, quello di Capeside, il suo creek. Si voltò verso Mitch e lo guardò confuso, senza riuscire a proferir parola, ancora troppo scosso da ciò che stava succedendo. Come faceva a trovarsi lì? E soprattutto perché? Era già troppo difficile comprendere per quale motivo un uomo uguale a suo padre gli fosse apparso in quello che sembrava uno strano sogno sotto effetto di potenti acidi, figurarsi cercare di capire l’operato di tale figura. L’uomo, ancora una volta, sembrò conoscere i suoi pensieri e rispose alle sue tacite domande, indicando un punto lontano. «Sì, siamo a Capeside, ma non nel 2017».

Dawson aguzzò lo sguardo e vide i suoi genitori in lontananza. Suo padre portava una strana capigliatura anni ottanta con grandi basettoni ai lati del viso, che non ricordava di aver mai visto su Mitch. La madre, invece, aveva i capelli legati con un’altissima coda di cavallo tenuta su da un elastico verde fluo, impossibile da non notare anche da quella distanza. Poco distanti da loro, lui e Joey bambini di poco più di sei anni, indossavano entrambi degli abiti pesanti e decisamente fuori moda, ed erano impegnati con quella che doveva essere la costruzione di un pupazzo di neve da una forma alquanto strana. Il ragazzo non riuscì a trattenere un sorriso, nel rivedere quella scena che aveva rimosso dalla memoria, e all’improvviso si ritrovò a rivivere con la mente quei ricordi. Quanti anni erano passati da allora? Troppi anche per contarli, sembrava fosse trascorsa un’eternità.

Da piccoli, lui e Joey attendevano la prima neve quasi con la stessa emozione ed impazienza con cui aspettavano il Natale. Entrambi trascorrevano ogni giorno di Dicembre ad aspettare quel fenomeno atmosferico con trepidazione, ingannando il tempo nella camera di Dawson a guardare vecchi film in cassetta tutte le volte che non si trovavano a scuola, e non appena vedevano apparire dalla finestra i primi fiocchi bianchi correvano fuori a giocare, a qualunque ora del giorno e della notte. Qualche anno più tardi, infatti, Dawson ricordava di aver avuto una discussione su questo argomento con i suoi genitori, i quali si erano lamentati di essere stati svegliati svariate volte nel cuore della notte da questa loro strana abitudine. Eppure a guardarli adesso, lì in mezzo a quella distesa imbiancata, non sembravano affatto contrariati.

«Perché mi hai portato qui?» dopo qualche minuto di silenzio, passato a contemplare quello scenario, Dawson parlò rivolgendosi all’uomo che aveva preso le sembianze di suo padre.

«Te l’ho detto, io sono un promemoria…» rispose semplicemente lui «… non decido io dove portarti, ma tu. Perché pensi di essere qui?»

Dawson alzò le spalle. Non ricordava nemmeno più quei momenti di tantissimi anni fa, quindi come avrebbe dovuto sapere per quale motivo la sua mente – o quello che quella sottospecie di visione di suo padre rappresentava – lo avesse condotto fin lì? Quella sorta di viaggio nei suoi ricordi era proprio cominciato nel peggiore dei modi e se si trattava di uno strano messaggio in codice da parte della sua mente, che gli suggeriva di prendersi una vacanza, avrebbe forse fatto bene a prenderlo in considerazione.

L’uomo si incamminò verso la quattro sagome, facendogli cenno di seguirlo, ma Dawson esitò.

«Tranquillo, non possono vederci… questo è un ricordo, noi non siamo realmente qui.»

Le parole di suo padre arrivarono, di nuovo, a sciogliere ogni suo dubbio e questa cosa, nonostante lo inquietasse terribilmente, gli trasmise anche uno strano senso di eccitazione. Era ancora scosso da ciò che stava vivendo, dalla visione di suo padre e da quello strano viaggio nel passato che aveva appena intrapreso, ma la curiosità di sapere per quale motivo quell’uomo fosse lì e lo avesse condotto sino a quel momento della sua vita era troppo forte per non essere assecondata.

Facendo qualche passo, Dawson non riuscì soltanto a scorgere più chiaramente la scena che gli si presentava davanti ma anche a sentire le parole che i personaggi di quel ricordo si stavano scambiando.

«Sei sempre il solito! Ti ho detto che il pupazzo di neve non può avere la faccia verde!» la piccola Joey, coperta fino alla testa da una sciarpa blu e un cappellino bianco, sbatteva i piedi contrariata affondando i suoi piccoli scarponcini nella neve bianca appena attecchita.

«Ma perché? ET era verde e nessuno si è mai lamentato di questa cosa!» rispose il piccolo Dawson, mentre risoluto applicava sulla parte di neve bianca, che avrebbe dovuto creare la faccia della loro opera d’arte, alcune foglie verdi raccolte da terra.

«Hai mai visto un uomo con la faccia verde? E parlo di persone reali, Dawson, non di un alieno finto che scende dallo spazio!» tornò a commentare la bambina, incrociando le braccia al petto e tirando fuori il suo solito broncio, che il Dawson adulto conosceva benissimo.

«ET non è finto! Lui esiste, solo che non tutti hanno la fortuna di conoscerlo ed incontrarlo!» si lamentò ancora una volta il biondino, cercando lo sguardo dei suoi genitori poco più in là.

«Non sarebbe meglio finire questo lavoro domani con la luce del sole, tesoro? Così potrai dormirci su e decidere se il tuo pupazzo debba avere la faccia verde o bianca!» chiese con dolcezza Gale, stringendosi nel suo pesante cappotto e accucciandosi con il viso ad un giovanissimo Mitch accanto a lei.

«Sì, con la luce del sole le foglie verdi si trovano più facilmente!» annuì l’uomo, cercando di convincere il figlio e, nel frattempo, far contenta anche una moglie gelata.

Il ragazzo, poco più in là, vedendo se stesso e i suoi genitori da lontano, non potè fare a meno di sorridere e provare, al tempo stesso, una forte malinconia. Malinconia per un tempo passato che non solo non sarebbe più tornato ma sembrava destinato a scomparire, anche dai suoi ricordi. Si voltò verso l’uomo che lo aveva condotto sin lì, identico allo stesso che gli era poco distante e si preoccupava di lui da bambino, e lo guardò dubbioso.

«Non capisco… perché siamo qui?»

Mitch non rispose, ma lo guardò e gli sorrise. Se c’era una cosa che ricordava bene di suo padre era il modo che aveva di osservarlo, sempre con quell’espressione fiera e tenera sul volto. E anche quella visione, in quel momento, lo stava guardando nello stesso modo. Uno sguardo che non solo gli era mancato terribilmente ma che era capace di farlo sentire al sicuro, protetto, proprio come si sentiva quel bambino del ricordo insieme ai suoi genitori e alla sua migliore amica.

Non sapeva se il suo viaggio fin lì fosse legato a questo. Se dovesse riscoprire quella parte di sé che sembrava avere perso, il senso profondo di essere bambini, di sapersi meravigliare e rallegrare anche per un po’ di neve e per qualche foglia raccolta da terra. Ma sapeva di provare nel cuore una profonda pace, una serenità che da troppo tempo non era tornata a fargli visita, ed era assurdo visto che stava vivendo un’esperienza al limite del surreale.

Socchiuse appena gli occhi, perdendosi in quei pensieri e nei ricordi di quei momenti spensierati e felici insieme alla sua famiglia e a Joey, ma un’altra folata di vento lo costrinse a ridestarsi. Rabbrividì, stringendosi nel suo maglione che, là fuori al freddo, adesso appariva fin troppo leggero e, quando si voltò verso l’uomo che lo aveva condotto sin lì, non lo trovò più. Mitch era scomparso e con lui anche il ricordo della sua infanzia che aveva osservato poco prima. Solamente lo scenario non era cambiato, la sua casa era ancora di fronte ai suoi occhi, anche se a Dawson sia l’abitazione che il fiume sembrarono diversi da prima.

«Perché lo sono, geniaccio!» una voce, fin troppo familiare, gli arrivò alle spalle facendolo sobbalzare. Si voltò verso l’uomo che aveva parlato, o meglio che lo aveva schernito senza troppi giri di parole, e non appena si rese conto di chi fosse non riuscì a fare a meno di restare a bocca aperta. «Beh, che c’è? Sembra tu abbia appena visto un fantasma!»

«Signor Brooks?» mormorò labilmente Dawson, mentre il suo amato mentore gli rivolgeva uno dei suoi sorrisi beffardi. «Lei non… non è reale! Non può essere!»

«Che acume! Avviserò subito i media!» lo prese in giro l’uomo, ma Dawson non fece nemmeno in tempo a dire altro che anche la scena di fronte a loro cambiò; e il ragazzo non mancò di riconoscerla subito, riportando alla mente anche tutti i ricordi legati a quella sera.

Poco più in là, infatti, il vecchio regista si rivolgeva a lui ancora ragazzino e pieno di insicurezze, dandogli probabilmente uno degli insegnamenti più importanti della sua vita.

«Perché vuoi diventare regista?»

«Come fai a spiegare perché ami qualcosa? La ami e basta.»

Dawson sorrise nel risentire quella sua risposta e pensò che, almeno da quel punto di vista, lui non era per niente cambiato. Era cresciuto, aveva abbandonato molte delle sue fantasie di ragazzo, ma certe cose non sarebbero mai cambiate. Il suo amore per quel sogno, che adesso era divenuto anche il suo lavoro, non era svanito e forse doveva essere un po’ grato anche a Brooks per questo.

«Perché siamo qui?» si rivolse di nuovo alla visione che lo accompagnava in questo ricordo, ma l’uomo ancora una volta non rispose. Pensò che qualcosa doveva essersi inceppato nel suo cervello, a quel punto, perché non solo non era normale vedere la gente morta, ma avrebbe almeno potuto immaginarli un po’ più chiacchieroni e amichevoli di così. «Al ragazzino de “Il sesto senso” almeno la gente rispondeva!» si lamentò a voce alta, in modo che il suo accompagnatore lo sentisse, ma quest’ultimo non batté ciglio ed anzi continuò il suo lavoro.

La scena cambiò ancora e i due si ritrovarono a casa Leery, proprio quella stessa sera. La cornice che si presentò davanti al ragazzo fu facilmente riconoscibile: sua madre e suo padre più innamorati che mai, in attesa della piccola Lily, e poco distante un giovane se stesso in compagnia di uno degli amori più grandi della sua vita.

«Gretchen…» Dawson mormorò quel nome e sul volto del suo accompagnatore si formò un sorriso.

«Smetti di lamentarti e guarda questa scena. Ricordi come ti sei sentito?» gli chiese il signor Brooks e, improvvisamente, tutti i ricordi tornarono a galla, come trasportati da un’inarrestabile marea. Non aveva più visto né sentito Gretchen da quel suo lontano ultimo anno di liceo, il che era assurdo considerato che per molti anni si erano ritrovati entrambi a Boston e lei era anche la sorella di uno dei suoi migliori amici. Avrebbe potuto chiamarla o scriverle, le occasioni non erano di certo mancate, ma in realtà non era mai stato pronto per questo. E poi i mesi erano diventati anni, gli anni decenni, e si era ritrovato al punto in cui era oggi, con solamente i ricordi di quello che era stato il loro amore. Non aveva mai smesso di pensare a lei però, e forse era per questo che, in quel momento, stava rivivendo quel ricordo.

Dawson socchiuse gli occhi, nel momento in cui il se stesso del passato lo aveva fatto, e gli sembrò di sentire le labbra di Gretchen sulle sue, di provare le stesse e identiche sensazioni di tanti anni prima. Sensazioni che non provava da tempo, che aveva spinto in profondità, nella parte più nascosta del suo cuore, ma che erano ancora lì, più forti, potenti e vere che mai.

«Sì…» fu tutto quello che riuscì a rispondere, ancora scosso dai brividi che quel ricordo gli aveva fatto riprovare, e fu in quel momento che anche quell’ennesima visione scomparve.

Avvenne tutto in un battito di ciglia, come per le due volte precedenti. Avvertì nuovamente quella stessa folata di vento, il suo corpo rabbrividire, e quando si voltò a guardare vide qualcun altro accanto a lui, una persona completamente inaspettata.

«Jen?» La ragazza camminò verso di lui, proprio come aveva fatto anni prima uscendo da quel taxi che l’aveva condotta a Capeside, e una lacrima non poté fare a meno di scendere sul viso di Dawson. La morte di Jen era un ricordo ancora troppo difficile da sopportare, troppo doloroso da accettare, e rivederla lì, in carne ed ossa – o quel che era – non fu per nulla facile.

«Ciao Dawson, vedo che chi è venuto prima di me non ti ha spiegato nulla! Hai ancora le stesse domande!» la visione – perché ormai di questo si trattava e lui stava impazzendo – aveva persino la stessa voce della sua amica e lo stesso sguardo peperino. «Come al solito mi tocca sempre fare tutto da sola!» la bionda sbuffò e indicò a Dawson di seguirlo in cucina. «Ricordi questa scena? Non è di certo uno dei Natali migliori che ha conosciuto questa casa!» La risata di Jen si mischiò al brusio della stanza e Dawson riconobbe subito il ricordo che la sua amica gli stava mostrando.

«Il Natale con lo schianto totale!» esclamò il ragazzo, riferendosi alla cena che aveva dato sua madre insieme ai suoi amici quando Audrey aveva fatto a pezzi casa sua.

«Già… ripeto, non uno dei Natali migliori, ma sta a me mostrarti la magia nascosta dietro la realtà, no?» Jen gli fece un occhiolino, ricordandogli una vecchia frase che tanti anni prima lui stesso le aveva dedicato, e poi indicò un punto lontano fuori dal grosso buco che Audrey aveva fatto ad una delle pareti della sua casa. In lontananza, Dawson riconobbe se stesso e Joey appoggiati sul pontile a parlare della loro amicizia e di quello che avevano passato. Quel ricordo lo fece sorridere nuovamente e non mancò di fargli riprovare le medesime sensazioni.

Quella lontana cena di Natale era stata un vero disastro: lui aveva rotto con Natasha, Joey con Eddie, Audrey aveva distrutto la sua casa dopo uno strano monologo da ubriaca e Todd era svenuto in bagno. Non era di certo un Natale da ricordare e nemmeno uno dei migliori della sua vita, eppure adesso a distanza di anni lo ricordava con piacere e col sorriso. Era stato, infatti, in quell’occasione che lui aveva finalmente chiarito il suo rapporto con Joey, dopo mesi di silenzio. Era allora che loro avevano superato il grandissimo scoglio della loro prima volta e, soprattutto, che aveva capito cosa volesse dalla loro relazione.

«Ma tutto questo cosa vuol dire?» apprezzò quella visione ma non riuscì ancora a cogliere il significato nascosto di cui parlava Jen e, soprattutto, perché in quel momento della sua vita la sua mente lo avesse riportato lì.

«Ancora non lo hai capito?» la sua domanda doveva essere sciocca, perché Jen si lasciò andare ad una delle sue famose fragorose risate. «E pensare che sei un regista affermato!» persino il modo in cui quella ragazza si prendeva gioco di lui era simile a quello della sua amica e questo non faceva che riaprire quella profonda ferita che Dawson stava cercando da anni di chiudere. Rivedere Jen, il suo modo goffo di camminare, risentire la sua voce, la sua risata e il modo che aveva di prenderlo in giro era un colpo al cuore, un dolore atroce, ma al tempo stesso uno dei suoi desideri più grandi. Dopo la morte della sua amica, così come era successo per Mitch anni prima, non faceva che sognare ad occhi aperti di rivederla, di poter parlare ancora con lei e far parte della sua vita, tanto da dimenticare spesso quello che le era successo. Ma poi gli bastava vedere qualche foto di Amy, ormai cresciuta, insieme a Jack e Doug per ricordare tutto.

E averla di nuovo lì, sognarla ancora – se poteva essere considerato un sogno quella strana avventura che stava vivendo – aveva riaperto un vaso di pandora che era meglio lasciare chiuso.

«Yu-uh! Sveglia! Non ho tutta la sera, quindi vediamo di non perderci in chiacchiere… anzi, in pensieri! Hai capito o no?» Jen, con il suo solito modo scherzoso, lo ridestò da quei pensieri, ma ancora una volta Dawson la guardò confuso. «Scrooge!» quel nome non illuminò nessun tipo di lampadina nella mente del ragazzo e, dall’espressione dell’amica, capì che stava per perdere la pazienza. «A Christmas Carol? Capisco che non è un’opera di Spielberg, ma ne hanno fatte numerose versioni cinematografiche.» scherzò ancora «Sono il fantasma del Natale passato, pezzo di idiota!»

A quanto pareva, la delicatezza di Jen non aveva perso il suo fascino nemmeno adesso che lei era… cosa era esattamente? Un fantasma? Il fantasma del Natale passato? E suo padre e il signor Brooks? Quanti caffè aveva bevuto quel giorno per ridursi a quel modo e avere simili visioni?

«E prima che tu me lo chieda… no, non sei pazzo! Ma lo diventerai di questo passo!» il fantasma di Jen gli tirò una sberla sulla nuca, ridacchiando allegramente, e Dawson borbottò di rimando.

«Ehi! Per essere un fantasma non sei per nulla buono!» il ragazzo si lamentò massaggiandosi la testa e assumendo un finto broncio, che però non fece presa su Jen che continuò a ridere.

«Nessuno ha mai detto che i fantasmi devono esserlo e poi il mio compito qui era un altro ed è già finito. Il resto dovresti capirlo da solo, testone!»

Jen svanì nel nulla e con lei anche Capeside, lasciando spazio al suo studio silenzioso e vuoto e alla sua scrivania ancora piena del lavoro da fare.

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